Sandra
Fred e Karin davano per scontato che tutti gli spagnoli nascessero sapendo fare la paella. Dovetti supplicarli che non mi obbligassero a cucinare perché non avevo idea di come si cucinasse, dire loro che preferivo la cucina norvegese a quella spagnola e che qualunque cosa avessero preparato l’avrei mangiata, e quindi, senza averne l’intenzione, mi sollevai da quell’incombenza. Mi limitavo a infilare i piatti nella lavastoviglie. Karin si metteva sul divano a vedere la sua telenovela finché non si addormentava e Fred si chiudeva nello studio-biblioteca. Io ne approfittavo per incontrarmi con Julián.
Arrivai alle quattro meno cinque al Faro, che ormai stava diventando il nostro luogo d’incontro. Ci sedevamo sempre sulla stessa panchina, fra palme nane che crescevano spontaneamente e che era proibito strappare e scogli rocciosi. Il mare di fronte ci serviva per farci stare zitti di tanto in tanto.
Julián era già lì. Portava sempre la stessa giacca azzurro chiaro. Sicuramente, quando aveva deciso di venire, non pensava che si sarebbe fermato tanto. Si era messo anche un fazzoletto al collo che, insieme al panama, lo faceva sembrare il personaggio di un film italiano, ma entro breve avrebbe dovuto comprarsi qualcosa di più pesante. Mi chiese come stavo. Allora non ce la feci più e gli raccontai della notte in cui avevo visto Fred con l’uniforme nazista. Gli dissi che l’avevo cercata negli armadi di casa ma non l’avevo trovata, e avevo il dubbio che fosse solo un travestimento.
«Ti assicuro di no. Se potessero, la porterebbero sempre. E se potessero, recinterebbero un pezzo di terreno, il più secco e pietroso possibile, e ci infilerebbero tutti lì dentro, ci torturerebbero e ci ucciderebbero per usare le nostre ossa, i nostri denti, la nostra pelle e i nostri capelli e per imporsi come esseri superiori.»
E Julián chi era? Si chiamava davvero così? Perché avrei dovuto fidarmi più di lui che di Fred e Karin? E se fosse stato un po’ svitato? Comunque non avevo detto niente dell’uniforme a nessuno dei due. Non avevo prove certe, eppure avevo evitato di menzionarla. L’istinto mi aveva suggerito di non infastidirli, di non obbligarli a darmi una spiegazione.
«Loro non si sentono in colpa», continuò Julián. «Non mi è mai capitato di incontrarne uno che abbia mostrato un qualunque segno di pentimento. Pensano di essere vittime di un mondo che è cambiato e non li capisce. In un certo senso», aggiunse abbassando lo sguardo, «la loro mancanza di sensi di colpa ha fatto sì che molti di loro, compresi Fred e Karin, riuscissero a mettersi in salvo. Si sono liberati, sono riusciti a sopravvivere benissimo. Sicuramente nell’intimità continuano ad alimentare le loro fantasie di superiorità.»
Rimase in silenzio e mi guardò per valutare la mia reazione, ma io non ne ebbi alcuna: non avevo notato niente che potesse rivelare il loro orgoglio di essere nazisti, i miei erano solo sospetti.
«Anche se avessi ragione, cosa vorresti che facessi? Ti ho già raccontato quel poco che so.»
«Niente. Non voglio che tu faccia niente. Voglio solo metterti in guardia perché ti allontani in tempo. Se ti avvicini troppo a loro non ne uscirai bene. Vincono sempre... almeno, è stato così finora. Questa volta però non avrò pietà.»
Non avrebbe avuto pietà? Ma cosa sperava di fare quel vecchietto indifeso camuffato da italiano? E perché io gli davo ascolto? Come si faceva a scoprire se uno era affetto da demenza senile?
«E se volessi rendermi utile in qualche modo, cosa dovrei fare?»
Rimase in silenzio a guardare il mare scuro sotto di noi che si stagliava contro l’orizzonte.
«La croce d’oro. Se tu trovassi la croce d’oro non avremmo più dubbi. Anzi, non li avresti più tu. Quando sono venuto qui, io sapevo già chi era lui.»
«Devo pensarci», risposi.
Non volevo credere che Fred e Karin fossero dei nazisti. I nazisti erano esseri incomprensibili. L’ultima cosa che mi sarebbe saltata in mente era di poterne conoscere uno. Li avevo visti nei film e nei documentari e mi erano sempre sembrati irreali. Le uniformi, gli stivali, le bandiere, i ragazzini con il braccio alzato, la razza ariana, la croce uncinata, tutta quell’efferatezza contorta. Era incredibile che la gente, la gente con un cervello, li avesse presi sul serio e gli avesse lasciato fare tutto quello che volevano.
«Te lo ripeto. Non lasciarti intimidire da loro e non farti condizionare da me. Tu non dovresti fare parte di questa storia. Dovresti stare con un ragazzo che ti voglia bene, con qualcuno che ti faccia felice. Non sprecare la tua vita.»
«Non so come si faccia a non sprecarla.»
«Vivendo felice e contenta, godendotela. Innamorati.»
«Mi piacerebbe, ma non è così facile.»
«E il padre di tuo figlio?»
«Santi? A volte mi manca, ma non tanto da esserne innamorata. »
«Sai una cosa? L’innamoramento passa.»
Il resto del tempo parlammo dei miei sentimenti. Si vedeva che aveva amato moltissimo la sua Raquel, perciò doveva essere esistita veramente. Gli chiesi come avesse fatto a rendersi conto che l’amava, cosa avesse sentito per saperlo con certezza. Quella domanda lo sconcertò e rimase in silenzio per un attimo.
«Perché a volte mi faceva volare», disse.
Poi aggiunse che se avessi avuto bisogno di parlargli, sarebbe stato nello stesso posto due giorni dopo alle quattro del pomeriggio.